Una luce nuova
Viviana Cardone
Un altro incubo. L’ennesimo. Un’altra sbornia, questa volta più
pesante, le annebbiava la vista. Ancora un’altra volta
quell’insopportabile disgusto per se stessa e per un’altra notte
trascorsa in un letto freddo ed estraneo. Un letto che apparteneva a
nessuno eppure a tutti: a tutti quelli che vi si erano rifugiati, per
rubare alla vita qualche ora lontana dal rumore
del mondo, magari in compagnia di un amore proibito, di un amore
incompreso o semplicemente di un amore. Quel letto adesso ospitava Ania
che, tra candide lenzuola di pizzo, aveva venduto il suo corpo e il suo
spirito, di certo non per amore. Per compiacere invece uomini, come
quello che l’aveva appena lasciata sola e a cui aveva permesso di
violarla ancora. Uomini che bramavano solo appagare la perversione dei
loro animi, frustrati ed incapaci di amare. Quegli uomini che avevano
calpestato senza scrupoli, con piedi pesanti e sporchi il suo cuore
acerbo di adolescente smarrita. Non era più sicura Ania, come lo era
stata diversi mesi prima, di poter controllare tutto. Aveva tristemente
scoperto che non era vero che avrebbe potuto fermarsi quando voleva.
L’adrenalinica sensazione di sentirsi forte, importante, capace di
dominare e piegare un uomo, anche solo per una notte, era svanita. Non
aveva più alcun valore adesso, tutto quel denaro ch’ella aveva creduto
capace di renderla sicura e di sotterrare quella fragilità, che per
anni, l’aveva fatta sentire inadeguata tra i banchi di scuola. Un senso
di vuoto adesso dilaniava la sua anima. Odiava se stessa e quelle
persone che avevano distrutto i suoi sogni, rendendola cinica, disillusa
e arida. Non ricordava nemmeno più come fosse cominciata quella
repentina discesa verso l’inferno. Ne sentiva però, tutta la fatica
nelle gambe esili e brune, che aveva concesso di profanare, nelle
braccia lisce con cui sapeva avvolgere i suoi carnefici. E ancora nella
testa che pulsava di dolore e nel cuore indurito dal peccato. Il
pensiero di farla finita era ossessivo e la tentava da un po’ di tempo.
Si fermò ad osservare i calici di cristallo sul comodino, con i quali
durante la trascorsa notte aveva affondato nell’alcool i residui di
dignità che ancora provava. Aveva bevuto champagne di altissima qualità
offertole dal cliente per “festeggiare” la sua promozione, in realtà per
rendere più accettabile, a se stesso e alla ragazza, l’oltraggio che di
lì a poco si sarebbe consumato. Ania afferrò furiosamente quei
bicchieri e con tutto l’odio e il disprezzo che nutriva per la sua vita,
li scagliò contro il pavimento frantumandoli in mille pezzi, come se
distruggerli avesse significato cancellare le tracce di ciò che era
successo. Stette, ancora un altro lungo minuto, ferma a guardare quelle
schegge di cristallo sparse a terra, che curiosamente somigliavano a
delle stelle. Come stelle splendevano, ma non di luce propria. Candidi
raggi di sole filtrati dalla finestra precipitavano su quei frammenti
come fulmini, e si rifrangevano, scomponendo la luce in mille colori che
accendevano la stanza. Ania allora, pensò al cielo e si domandò dove
sarebbe andata, dopo la morte. Cosa avrebbe dovuto aspettarsi una volta
giunta al cospetto del Creatore? Costui l’avrebbe punita? Perdonata?
Biasimata? O magari non c’era proprio nulla dopo la morte. Chi poteva
dirlo con certezza? Tuttavia, ciò che le premeva adesso era sparire,
smettere di vivere, soffocare quell’esistenza senza gioie, corrotta,
macchiata e inutile. Si diresse verso la finestra e si affacciò. Il suo
sguardo si perse nel vuoto. Per lunghi istanti tutto, intorno a sé,
sembrò tacere. Solo il silenzio: l’assordante silenzio della sua anima.
Il cuore ansimava per uscire dal petto. “Solo un salto”, pensò. “E sarà
finita, per sempre”. Le mani madide di un sudore pesante come il piombo
facevano fatica a stringere il parapetto. Una spinta, poi un tonfo. Due,
tre minuti di agonia prima della fine. Immaginava, programmava,
simulava. Nella sua mente la scena si ripeteva a rallentatore in un
realismo tale da farle credere di averlo già fatto. Intanto era ancora
lì, affacciata alla ringhiera. Poi una voce riuscì a distoglierla dalla
sua catalessi. Dalla strada, un bambino richiamò la sua attenzione, le
faceva cenni con la manina e le rivolgeva sorrisi carichi di gioia e
purezza. Quella purezza che credeva di aver perduto irreversibilmente e
che per riaverla avrebbe dato la vita, appunto. Il sole incandescente di
agosto che illuminava il suo viso, ricoperto dal rimmel sciolto che
scorreva ancora sugli zigomi, le impediva di tenere aperti gli occhi
ancora arrossati dal pianto. E quando riuscì a riaprirli, fissò il cielo
e l’intenso pigmento nocciola dei suoi occhi rifletté quei raggi che
per un attimo li colorarono di giallo grano. Quello scontro provocò una
luce nuova, una luce rigenerante. Ania avvertì infatti, una sensazione
dì conforto pervaderle la schiena. Quei raggi, chissà perché, adesso le
infondevano rassicurazione, coraggio, perdono. Cominciò a desiderare di
risalire in superficie, farsi trasportare da quei raggi di speranza e
raggiungere il sole. Iniziò a maturare la consapevolezza che morire non
sarebbe stata la soluzione, sarebbe stata invece un’altra dimostrazione
della sua fragilità, della sua inadeguatezza. Un altro fallimento,
questa volta irrimediabile. Forse invece, la sorte avrebbe potuto
riservarle qualcosa di bello, di puro, come il sorriso di quel bambino.
In fondo aveva tutta una vita davanti a sé. Perché non crederci? Sapeva
che sarebbe stato difficile dimenticare, e ritornare a sorridere. La
vergogna che provava per se stessa non sarebbe svanita così presto, così
come l’odio e la diffidenza verso gli uomini. Ma avrebbe ricominciato
tutto daccapo. Rientrò in camera e calpestò coi piedi nudi le schegge
splendenti. Notò che non facevano poi così male. “Schegge di luce”
pensò, ritrovandosi a far sbocciare un timido sorriso. E splendendo,
insieme alle sue schegge di luce, prese il telefono. Le dita tremanti
composero in fretta un numero, conosciuto a memoria, ma non digitato da
tempo. Tre squilli. Un minuto in silenzio, poi un respiro di sollievo.
Infine, con la voce rotta dalla commozione e con la voglia di rinascere
che le pulsava nelle vene, riuscì finalmente a rispondere “Mamma…?”.
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